Alessandro Agresti
Leggi i suoi articoliLa storia della chiesa è intrecciata col progetto urbanistico più ambizioso di Giulio II: l’apertura nel 1508 del rettifilo di Via Giulia che univa il centro di Roma al Vaticano. Lungo e complesso il cantiere che terminerà in pieno Settecento con la sobria facciata di Alessandro Galilei: ben prima di lui si avvicendarono architetti del calibro di Baldassarre Peruzzi, Jacopo Sansovino, Raffaello in persona e Antonio da Sangallo il Giovane.
Quest’ultimo si trovò ad affrontare il difficile problema statico dell’abside che poggiava le sue fondamenta nel bacino del Tevere: il provvidenziale intervento di Michelangelo è ormai leggenda. In pieno Cinquecento, con Giacomo della Porta e, soprattutto, con Carlo Maderno, l’interno venne effettivamente concluso: un interno maestoso e sobrio, privo di affreschi sia nella navata che nella cupola, dove lo spazio solenne induce al raccoglimento e alla meditazione.
Esso è un vero scrigno di tesori del Barocco Romano, soprattutto in ambito scultoreo: cito su tutti il «Battesimo di Cristo» di Antonio Raggi, che funge da pala dell’estroso altare in marmo rosso progettato da Francesco Borromini, dove il Dio padre con gli angeli irrompe all’improvviso e pare planare enfaticamente sulla scena principale, con le figure sottili ed eleganti del Battista e di Gesù avvolti da ricchi panni che metamorficamente paiono prendere vita propria, a rendere ancor più coinvolgente il momento raffigurato.
Proprio accanto a quest’opera, più precisamente a destra, nella Cappella Sacchetti, è poi uno dei primi e più alti esempi in pittura del Barocco romano: le tele e gli affreschi di Giovanni Lanfranco, nella sgargiante cromia, nell’impetuoso senso del movimento come nell’audace sfondamento illusionistico delle pareti (mirabile il Cristo scorciato della cupola) sono delle pietre miliari dell’arte capitolina di quel giro d’anni. La chiesa poi ospita una delle rare pale d’altare di Salvator Rosa, che tentava di accreditarsi al tempo anche come pittore di «Istoria» (con scarsi risultati).
Narra Giuseppe Passeri che, incontrando l’eccentrico pittore, questi non esitasse a dichiarare su quell’opera: «Che dicono adesso questi maligni? Si sono chiariti, se io so fare in grande? O venga Michelangelo, e disegni meglio quel nudo, che vi ho fatto io». Infine, nel piccolo e prezioso museo annesso alla chiesa, è conservato un pregevolissimo (e poco conosciuto, anche dal pubblico romano) busto del Bernini, il «Ritratto di Antonio Cepparelli», di impressionante realismo e vividezza, con quella fila di bottoni che è un vero saggio delle capacità mimetiche del regista del Barocco al pari nella resa dell’espressione sorniona e un po’ melanconica del ricco fiorentino, già benefattore dell’ospedale di San Giovanni dei Fiorentini.
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